Siamo tutti impostori

Manifesto per una società di autodidatti

Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere , la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.

Quando ho letto questa frase di Karl Marx, tratta da L’ideologia tedesca (scritta con Friedrich Engels), un libro del 1846 ma pubblicato solo nel 1932, mi sono commosso.

Difficile — penserà qualcuno, probabilmente molti… — emozionarsi per una frase di un autore così complesso, difficile, ostico, “freddo” come Marx.

Grave, gravissimo errore.

Karl Marx, oltre ad aver messo a nudo i meccanismi del capitalismo ha anche delineato un nuovo umanesimo e — pure se non era il suo scopo principale — provato a immaginare un futuro nel quale l’uomo e la donna fossero capaci di esprimere completamente le proprie potenzialità.

E’ per questo che per me, oggi, leggere Marx, la sua concezione dell’uomo e della storia, è come partire per un viaggio alchemico, un modo per riempire di misticismo laico un presente fatto di sofferenza globale e individuale.

Marx mette le parole giuste là dove ho bisogno che qualcuno le metta.

E’ successo con questa frase tratta da un libro scritto oltre 170 anni fa.

Il lavoro è sempre stato al centro della mia vita: il luogo principale del mio sviluppo intellettuale e del mio impegno psicofisico.

Impossibile per me pensare al lavoro come frustrazione, impegno da svolgere senza passione: l’attività che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita — pensavo 20 anni fa, quando ancora non ero entrato nel mondo del lavoro — avrebbe dovuto essere frutto di una scelta, delle mi inclinazioni, non frutto delle circostanze. Non del bisogno economico; non di incontri più o meno casuali.

Ho avuto fortuna: nel 2000 ho iniziato il mio primo lavoro come giornalista, con un contratto a tempo indeterminato.

Poi nel 2004 mi sono licenziato.

In mezzo quattro anni durante i quali ho potuto sperimentare quanto il lavoro — anche quello che hai scelto — possa diventare luogo di ricatti, oppressione, scontro. Stupidità.

Il luogo dove coloro che esercitano il potere e interpretano il lavoro come mero strumento di espressione di questo potere rendono la vita impossibile a chi il lavoro lo ama.

Ho quindi scelto la via dell’indipendenza: avevo mantenuto un piede nella ricerca e — pur continuando a lavorare come giornalista — mi sono buttato a capofitto nel mondo degli studi accademici, pur restando un free lance.

Una situazione precaria, che — concedendomi l’agio di decidere quando e come lavorare — mi imponeva un continuo sforzo di ricerca di finanziamenti, mentre la necessità di farmi spazio in un mondo saturo di ricercatori a caccia del minimo vitale per sopravvivere mi gettava in uno stato di continua ansia da prestazione.

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Sono stati anni segnati dall’ambivalenza: da una parte passione per lo studio, voglia di sperimentare, ma dall’altra incertezza esistenziale, preoccupazione per il futuro.

Ho scritto libri, organizzato convegni, partecipato a incontri di studio… Ma, conscio della precarietà della situazione, per mia inclinazione naturale ho continuato a coltivare interessi alternativi: mi sono inventato documentarista, ho sperimentato l’utilizzo del video e di internet, ho partecipato a festival cinematografici e scritto sceneggiature.

Suscitando però la diffidenza di molti: di coloro che — lavorando dall’interno dell’accademia — vedevano in me un ricercatore “spurio”, fondamentalmente poco serio; di coloro che incontravo nel mondo del documentario e che mi consideravano un estraneo, troppo accademico per poter imparare il linguaggio diretto ed emotivo dell’immagine.

Poi sono arrivati i figli, che come un terremoto hanno cambiato tutto: le prospettive, il tempo a disposizione, le emozioni…

Ora sono di nuovo un lavoratore dipendente, faccio il lavoro che ho scelto — il giornalista — e il ciclo della mia vita lavorativa è ritornato all’inizio, a quel primo lavoro iniziato nel 2000.

Così come il ciclo di frustrazioni, piacere, rabbia, dato dall’operare nel contesto di un’azienda con mille capi e capetti, priva di linea editoriale e prona alle esigenze della politica.

Con però l’esperienza di 15 anni di lavori diversi, di ricerca e di sperimentazione, di vita familiare, che mi concedono di avere uno sguardo più pragmatico sulla mia attività professionale e resistere meglio alle pressioni che — ormai l’ho capito — sono una parte inevitabile dell’essere lavoratore.

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Leggo ora — con l’appoggio autorevole di Karl — questi anni di attività e di creazione, vissuti nel segno della passione, della sperimentazione e della cultura DIY, come il bisogno di rompere le barriere che separano la vita dal lavoro, le discipline l’una dall’altra, i diversi media tra loro e con il mondo della ricerca.

Sempre alla ricerca di uno spazio di creatività, curioso delle diverse attività umane, in una continua ricerca di arricchimento personale attraverso l’incontro con persone interessanti, con saperi nuovi e affascinanti.

Ho fatta mia la convinzione che ciascuno di noi ha il diritto di seguire le proprie passioni, di sperimentare, di provare, di riflettere e agire senza barriere.

Ho contrapposto lo spirito dell’autodidatta all’obbligo di specializzazione che la vita lavorativa ci impone.

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Ma questo mondo non è fatto per gli autodidatti, per i curiosi; in particolare non lo è il mondo del lavoro, sottoposto alla logica economica, del guadagno per vivere, del potere.

Della vita che è lavoro e non del lavoro che è vita.

Mi sono accorto presto che essere autodidatta non è previsto, non va bene, e che quando attraversi le frontiere invisibili che separano lavori, discipline, campi del sapere gli altri ti vedono come un estraneo.

Un impostore.

E impostore cominci a sentirti tu, mai a tuo agio nei mondi di cui vorresti fare parte senza esserne prigioniero.

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La psicologia ha dato un nome a questo sentimento: la “sindrome dell’impostore”.

Nel soggetto affetto da tale disturbo si manifesta la convinzione di essere un impostore che non merita i successi ottenuti nonostante l’evidenza delle sue capacità e competenze; al contrario si tende ad attribuire il proprio successo a fortuna, tempismo o al più ad abilità a simulare più intelligenza e preparazione di quanto l’ambiente esterno attribuisce al soggetto.

Credo però, alla luce del mio “caso clinico”, di poter proporre una interpretazione che rovesci il punto di vista della psicologia, che tende ad attribuire all’individuo ciò che è frutto avvelenato della società. E lo faccio citando un uomo che ha dedicato a questa convinzione tutta la sua vita:

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere. (Franco Basaglia, da Che cos’é la Psichiatria,1967. Ristampa: Piccola biblioteca Einaudi, Torino, Einaudi, 1973.)

Non siamo noi — curiosi, appassionati, sperimentatori — ad essere impostori, ma questa società che ci impone di non essere uomini e donne a tutti gli effetti, parte di un processo creativo globale volto alla crescita comune, al benessere e alla felicità.

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Arrivato alla soglia della mezza età, guardando indietro a quello che ho fatto e vissuto, rivendico il mio diritto ad essere cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico; rivendico il diritto a lottare per una società dove nessuno debba più sentirsi un impostore.