L’intenzione fa la buona foto

Figlia guarda Venezia dal vaporetto. Rollei 35

Riflessioni analogiche sulla pratica fotografica ai tempi del digitale

L’eterna controversia che vede su fronti opposti i fautori di una resistenza analogica contro la banalità del digitale nel campo della fotografia si tinge spesso di malinconia per i bei tempi andati, da una parte, e di adesione fideistica alle sorti progressive della tecnologia dall’altra.

Ma le argomentazioni degli uni e degli altri spesso peccano di superficialità: non è il mezzo, ma il suo uso che determina il risultato.

D’altra parte però il mezzo influenza a sua volta l’uso e il risultato è spesso viziato da un utilizzo poco cosciente del mezzo.

Da fotografo eternamente in erba, adepto del culto misterioso della fotografia analogica ma opportunisticamente conquistato a quello della fotografia digitale, ho riflettuto a lungo sul produrre immagini ai tempi della loro sovrabbondanza.

Per quanto mi riguarda sono giunto alla conclusione che la condizione necessaria per scattare una buona foto (digitale o analogica) sia l’intenzione.

L’intenzione si manifesta ben prima dello scatto; la fotografia deve cominciare a essere pensata quando ancora non è che una ipotesi.

Nella mia pratica fotografica mi sono reso conto che le foto migliori nascono da un progetto, un po’ come organizzare una battuta di caccia.

Provo a fare un esempio: “voglio raccogliere delle foto della città di notte” è un progetto semplice ma che ha comunque bisogno di un minimo di preparazione e che crea un contesto, prima di tutto mentale, che inizia con il mettere al lavoro l’immaginazione.

Prima ancora di prendere in mano la macchina fotografica bisogna preparare l’uscita — per semplice e banale che sia — e il solo fatto di farlo, di scegliere un’orario, un itinerario, un mezzo di trasporto, il materiale da portare impone al fotografo di riflettere sui suoi obiettivi.

L’intenzione circoscrive il campo entro il quale il caso può fare il suo gioco; è più divertente giocare con lui su un terreno conosciuto, almeno se si vuole portare a casa qualche risultato, magari una bella azione, anche se non coronata da una vittoria.

Si sa, il caso è un giocatore piuttosto forte.

Al contrario, l’idea di confrontarsi con lui semplicemente scendendo per strada e cogliendo l’attimo, la situazione offerta su un piatto d’argento dalle circostanze è quanto di più naif possa esserci e produce solitamente immagini trite e ritrite, prive di interesse, come chiunque può verificare facendosi un giro su Flickr alla voce street photography.

Un fotografo osannato come Henry Cartier-Bresson non si limitava come un flâneur a passeggiare per le strade del mondo in cerca del momento in cui scattare. Preparava le sue fotografie, che sono sempre un tentativo di incastrare il caso in un frammento di realtà significativo, che non è più realtà, ma qualcosa in più: un discorso sulla realtà.

In fondo il paradosso della fotografia che si vuole artistica è questo: cercare di costruire una interpretazione del reale sfruttando una tecnica nata per illustrarla naturalisticamente.

La realtà non si offre a noi fornendoci spontaneamente le chiavi di questa interpretazione: essa si dà attraverso un percorso di riflessione intenzionale.

Che inizia ben prima dello scatto dell’otturatore, analogico o digitale che sia.


Analogico o digitale che sia.