Il tempo della fotografia analogica

[Il testo del mio corsivo andato in onda questa mattina su Rete Due]

La fotografia analogica sta tornando di moda. Non che sia mai scomparsa dalla scena, ma alcune iniziative recenti mostrano un rinnovato interesse del mercato (c’è moda quando c’è mercato…) per questa nicchia di appassionati. Ed è proprio questo fatto, l’apparizione di capitali che investono su progetti innovativi nel campo analogico, che indica la presenza di un interessante bacino di consumatori potenziali.

Tra qualche giorno sarà di nuovo in vendita la pellicola P30 della Ferrania, storica azienda italiana nata esattamente 100 anni fa che aveva smesso la produzione nel 2011 a causa della concorrenza del digitale. Ormai da qualche anno, con l‘Impossible project le pellicole istantanee di tipo Polaroid sono tornare sul mercato, definendo un nuovo segmento di mercato di lusso (le pellicole sono piuttosto care…) rivolte ad artisti e professionisti dell’immagine mentre un’azienda italo-svizzera specializzata nella vendita di materiale analogico, la Ars Imago, ha appena lanciato su Kickstarter il progetto di una tank evoluta per lo sviluppo dei negativi 120 e 135.

Da anni ormai Lomography propone un ritorno all’amalogico ludico e disinibito, proponendo ai consumatori non solo pellicole particolari (per ottenere il tipico “effetto Lomography”) ma anche nuove macchine ispirate a modelli del passato, che spesso uniscono l’analogico al digitale.

Recentemente una startup che si chiama Mint ha messo sul mercato una copia della Rolleiflex che usa pellicole istantanee Fuji, mentre sempre su Kickstarter sono stati finanziati i progetti di un banco ottico “economico” e di un dorso digitale (basato su Raspberry Pi) che si adatta a tutte le fotocamere analogiche 35mm.

Tra i progetti più interessanti c’è anche quello di una “pellicola digitale” da inserire come un caricatore di pellicola analogica in qualsiasi vecchia macchina fotografica: un fake inventato da Rogge & Pott, una design company tedesca, che ha però suscitato un grande interesse, mostrando quanto la strada dell’ibridazione analogico-digitale possa aprire nuove strade. Quelle che ha deciso di imboccare la Kodak (e non è un fake) che ha lanciato una nuova cinepresa Super8 per rinverdire i fasti di una pellicola, la 8mm, data per morta e sepolta.

Sono soltanto alcuni esempi di come le cose si stiano muovono in questo piccolo mondo, lasciato per anni agli appassionati e ai nostalgici: si tratterà di vedere, nel futuro, se questo ritorno all’analogico prenderà le dimensioni inaspettate che sta avendo un altro come back, quello del disco in vinile, ormai una realtà consolidata nell’industria discografica sconvolta da una crisi profonda indotta dal digitale.

Se dunque le iniziative nel campo analogico si susseguono, vuol dire che c’è un mercato potenziale. Ma il mercato segue (per poi cercare di indirizzarla) una propensione che nasce “dal basso” al recupero della pellicola e della vecchia fotocamera trovata in soffitta o sul banchetto di un mercatino.

Da cosa nasce questo atteggiamento che potrebbe essere bollato come nostalgico? In fondo il digitale rappresenta un progresso: si può scattare di più, a minor costo (ma ne siamo proprio sicuri?) e con grande qualità. L’analogico è tendenzialmente più costoso e i risultati meno prevedibili.

Qui si entra nella sfera della psicologia individuale e allora, senza pretendere di dare una risposta valida in ogni caso, provo a fare qualche riflessione che deriva dalla mia pratica fotografica, assolutamente non professionale, sia chiaro, ma forse proprio per questo esemplificativa di un movimento che riguarda in particolare i foto-amatori, cioè coloro che amano fare fotografia non come semplice archiviazione della loro quotidianità (scatto per ricordare i momenti più significativi della mia vita…) ma con il desiderio di raccontare qualcosa non solo della loro vita, ma della vita in generale.

Che, in un modo o in un altro, bene o male, vedono la fotografia come espressione di creatività, come un linguaggio che usa la metafora per raccontare l’esistente, come scelta di rappresentazione e non come mera riproduzione dell’istante (perché lasciare le potenzialità espressive della fotografia in mano solo ai professionisti?).

Qualche giorno fa, staccandomi dallo schermo del mio computer a fatica, mi sono messo a leggere un libro (cartaceo) che avevo iniziato da un po’ e che giaceva sul comodino in attesa di attenzioni: dopo qualche minuto mi sono accorto di aver raggiunto uno stato di immersione totale nella vicenda raccontata tra quelle pagine (“Temps glaciaires”, di Fred Vargas) e che quella sensazione ne portava con sé un’altra: un rilassamento totale, uno stato di tranquillità e di serenità che non provo nel corso delle mie (tante) letture digitali, su internet e sui social, che sono ormai un’abitudine per me, anche a causa della mia professione.

Mi sono chiesto a cosa questa sensazione era dovuta: una delle risposte che mi sono dato è che il libro – prima di tutto – non è multitasking. Il libro è un prodotto finito, anche fisicamente: c’è un inizio e una fine e la tua mente è lì, soltanto lì. Ti affidi a un autore, che ti porta per mano dove vuole lui e tu sei libero di non seguirlo, ma se non vuoi puoi anche smettere.

La lettura in digitale, su internet, è potenzialmente infinita e il rapporto con il computer è intrinsecamente multitasking; il digitale in generale lo è, perchè permette un’infinita divagazione grazie alla riproduzione infinita dei contenuti e della loro potenziale trasposizione tecnica da un medium all’altro. In fondo la sostanza di un post su facebook e di una fotografia digitale è la stessa: una sequenza di 0 e di 1 infinitamente riproducibile.

A differenza della lettura di un libro, la fotografia è un processo creativo e la creazione, lo spazio stesso della creatività è tutto compreso nel processo, in questo caso di produzione dell’immagine: è nel percorso di costruzione di uno scatto che si fanno le scelte necessarie alla sua riuscita. Una riuscita non solo tecnica, ma anche espressiva.

La fotografia digitale comprime nello scatto il momento della creazione, abolendo dunque il processo anteriore, quello della riflessione e della scelta, comprimendo nello stesso tempo le potenzialità creative della fotografia.

Con questo non voglio dire evidentemente che tutte le fotografie fatte in digitale siano prive di creatività, anzi. Quello che però è sicuro è che il controllo del processo (e insieme l’imprevedibilità del risultato) creano uno spazio maggiore per il recupero della creatività. E’ quindi una questione di controllo sul processo di produzione dell’immagine, che non è di per sé garanzia di un buon risultato finale, ma che permette il recupero del momento della riflessione, della concentrazione, del flusso e della scelta.

E’ anche – in fondo – il recupero di un tempo cancellato dall’immediatezza del digitale e dall’ansia del multitasking: c’è un tempo di incertezza nella fotografia analogica, che si intrufola tra il momento dello scatto e quello dello sviluppo dell’immagine stessa, che è il tempo delle possibilità, delle potenzialità; e, a ben vedere, questo stesso tempo è quello che si trova anche prima dello scatto, quando il fotografo deve decidere l’inquadratura, l’esposizione giusta. Un tempo ricco, che carica il risultato finale, l’immagine, di un valore immanente che una foto digitale spesso non ha.

Recentemente ho letto la testimonianza di un fotografo che raccontava come i rullini scattati in analogico spesso li lasciava in un cassetto per mesi, addirittura per anni. Quando poi si decideva a svilupparli le foto ottenute – brutte o belle che fossero – si caricavano della qualità di questo tempo. Un tempo appiattito dal digitale, che è uno degli elementi fondamentali alla base del recupero dell’analogico. Perchè è un tempo di scelte e di creatività.