Pianosa e la metafora del carcere applicata all’oggi

 

Per arrivare a Pianosa, l’isola-carcere, si parte dall’Elba, da Marina di Campo, con un battello di solito pieno di gente. Le visite sono obbligatoriamente da svolgere con le guide, mentre è permesso passeggiare liberamente tra le casette in rovina del paesello abbandonato e fare il bagno nelle acque cristalline che lambiscono la spiaggia vicina al porticciolo.

L’immagine del lungo, inquietante muro del carcere speciale voluto da Dalla Chiesa per rinchiudere i terroristi degli “anni di piombo” desta nel pellegrino acute riflessioni.

Come quelle espresse a voce alta da una coppia di turisti bergamaschi attorno ai 70 che, durante la visita all’oasi naturale, propongono Pianosa e la sua prigione – oggi abbandonata – come soluzione per il problema migratorio in Italia.

Facciamo loro notare che questo tipo di riflessioni se le possono tenere per sé; girarle e rigirarle nel loro triste foro interiore e consumarsi nella loro banalità. Ci guardano stupiti: “Ma come, non è forse quello che pensano tutti?”.

Anche qui, su questo piccolo pezzo di terra così bello, dove il Mediterraneo lambisce i nostri pensieri consumandoli con il sale marino e il sole che scalda i fichi d’india; dove si potrebbe riflettere su quanto questo mare abbia accolto e non solo respinto, la morbosa rappresentazione di un mondo che odia inquina i nostri pensieri più belli, il languore dei nostri corpi stesi sulla sabbia.

Non c’è requie, non c’è fuga possibile.

[fotografie scattate in analogico con Pentacon Six, obiettivo Biometar 2.8/80]