Quanno ce vo’ ce vo’

[Il mio “corsivo” andato in onda martedì 9 aprile 2019 sulle onde di Rete Due — RSI. Qui sotto trovate anche l’audio del mio intervento]

“A me sto fatto che bisogna annà sempre contro la minoranza non me sta bene. Non me sta bene che no. Io sono de Torre Maura e non so’ d’accordo”.

Mi scuso per l’orribile tentativo di scimmiottare la pronuncia romanesca, ma — come dicono da quelle parti — quanno ce vo’ ce vo’.

È per rendere omaggio a un giovane quindicenne di Torre Maura, una borgata romana, che con tanto, tanto coraggio, ha fatto quello che molti non fanno più da tanti, tanti anni. Rispondere alla discriminazione dicendo “no, io non ci sto”.

E lo ha fatto con lo strumento più affilato di tutti: la lingua. Non il puro italiano dell’accademia, ma con quello espressivo e efficace del luogo in cui vive: il romanesco.

Simone, con l’ingenuità che Pasolini trovava negli abitanti delle periferie e con un candore commovente ha affrontato uno dei dirigenti di Casa Pound che guidava la protesta contro l’arrivo a Torre Maura di una settantina di Rom spostati lì dal comune.

Il video di questo confronto si trova facilmente in rete ed è diventato rapidamente virale: Simone è diventato un eroe, ma non per tutti.

A guidare le reazioni indignate non dei neofascisti ma dei puristi della lingua italiana è stata la scrittrice Elena Stancanelli, che in un tweet ha scritto:

“Per carità, il pischello di Torre Maura, che gli vuoi dire, coraggioso… ma che uno a quell’età non sappia parlare in italiano non vi fa impressione?”

La questione della lingua, da Dante a Pasolini, passando per Manzoni, è sempre stata una questione squisitamente sociale e politica.

Nel 2017 si sono celebrati i cinquant’anni da quel bruciante manifesto sulla scuola che è “Lettera a una professoressa” di Don Milani, che tanta influenza ha avuto anche sull’insegnamento in Svizzera italiana.

Scriveva il prete di Barbiana:

“Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo”.

Ma non si tratta solo di difendere Simone e la sua lingua in modo pietistico perché in fondo lui — poverello — viene dalle borgate. No! Come ha dichiarato un suo insegnante

“La competenza linguistica consiste anche nel saper adottare registri differenti a seconda delle circostanze. Il ragazzo si è espresso correttamente: si rivolgeva a Casapound e non certo ad un gruppo di illustri accademici”.

La lingua, quindi, non è neutra, riflette in sé le differenze di classe e di genere. Come dovrebbe essere allora una lingua veramente democratica? Ha provato a immaginarla il linguista Tullio De Mauro, che scriveva:

“La scuola democratica insegnerà come si può dire una cosa, in quale fantastico infinito universo di modi distinti di comunicare noi siamo proiettati nel momento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa. Possiamo dire una cosa in inglese, in cinese, in turco, in piemontese, in siciliano, romanesco, trasteverino, e in italiano […] possiamo dirla tacendo, purché abbiamo veramente voglia di dirla e purché ce la lascino dire.”

E allora lasciamogliele dire queste parole ai Simone, ai Greta Thunberg, ai Rami Shehata, giovani che decidono di nuotare controcorrente, coraggiosamente.

“Non me sta bene che no”. Propongo che quest’espressione venga posta sopra l’entrata di ogni nostra scuola e venga accolta come il modo più grammaticalmente corretto di dire: “No. Non sono d’accordo”.