La partita

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Dietro il campanile, chiuso tra quattro muri che lo rendono quasi invisibile, circondato da condomini con i panni stesi alle finestre, si nasconde un campetto da calcio dove il tempo pare essersi fermato.

E’ un piccolo club cittadino, dove abbiamo deciso di mandare nostro figlio di sette anni perché venga iniziato alla nobile arte del calcio.

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A noi non sarebbe mai venuto in mente di farlo avvicinare a un tale luogo di perdizione, ma dopo anni spesi nel cercare di farlo interessare alle discipline più varie e originali, qualche mese fa, senza aver prima mai mostrato interesse per il pallone, è diventato un vero fanatico. Colpa dei mondiali 2018, presumo.

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Così lo abbiamo portato nel luogo più vicino a casa, per facilitare la logistica e permettergli di essere presente ai due allenamenti alla settimana canonici.

Da allora il suo entusiasmo non scema, ma il nostro non cresce.

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Già vedo sul campo le dinamiche alle quali ho dovuto piegarmi nel corso della mia adolescenza sui campi di calcio: quella che vede premiare i più arroganti e prepotenti e non l’intelligenza di gioco, la voglia di giocare insieme.

Il calcio è così. Uno sport d’altri tempi; una metafora della guerra; la dinamica nemico/amico; l’immagine di una società autoritaria che non c’è più.

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E’ anche un gioco bellissimo e divertente e nonostante il transfer attuato da suo padre mio figlio continua a divertirsi da matti, anche se è il più scarpone della squadra.

Gode di un grande rispetto da parte dei suoi compagni di classe che giocano con lui e quindi quando si fanno le squadre, nonostante tutto, è sempre il primo a venire scelto.

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Bambini. Ci penserà il calcio a cambiarli.

[immagini realizzate su pellicola con Contax T3]