Fare i conti con il padre nello spazio

Bellissimo e malinconico, Ad Astra non è un film sulla conquista dello spazio ma sui rapporti tra gli esseri umani

“Ad Astra” è un film bellissimo e malinconico, dove la fantascienza come macchina metaforica dà il suo meglio: non è un film sulla conquista spaziale, ma sui rapporti tra gli esseri umani e sui fili invisibili ma tenaci che ci tengono legati gli uni agli altri; le emozioni, l’affetto, l’amore.

Per questo è un film molto umano, nonostante (o proprio perché…) si svolge nel vuoto alieno dello spazio, dove la solitudine è un masso che schiaccia la nostra infinita piccolezza. E per questo è anche un film pieno di ottimismo.
“Ad Astra” è la storia di un lungo viaggio spaziale, dalla Terra a Nettuno, affrontato da un astronauta che parte alla ricerca del padre, anche lui esploratore spaziale, dato per disperso durante una missione alla ricerca di forme di vita intelligenti ma che in realtà è ancora vivo e sta mettendo in pericolo tutto il sistema solare. Compito di Roy è quello di porre fine alle ricerche del padre e salvare la Terra da un probabile disastro.
La scelta del regista è stata quella di descrivere il viaggio spaziale nel modo più realistico possibile: niente “motori a curvatura” ma razzi soltanto un poco più evoluti di quelli che conosciamo oggi. Niente salti istantanei, ma lunghe attese nel vuoto per andare da un punto all’altro nello spazio. Un vuoto spaziale (al contrario di molti altri film di fantascienza) piacevolmente privo di suoni.
E nonostante la scelta “realistica”, “Ad Astra” stupisce per la sua bellezza formale, per le immagini e le atmosfere che riesce a suggerire, tanto da essere stato paragonato dai critici a “2001: Odissea nello spazio” o “Solaris”.
Il paragone è con uno dei più interessanti e impegnativi romanzi di Stanislaw Lem, “Il pianeta del silenzio”, nel quale una spedizione terrestre cerca di entrare in contatto con degli alieni che rifiutano di comunicare.
Anche in “Ad Astra” c’è il tentativo di entrare in contatto con altri esseri intelligenti, ma anche il tema della solitudine e dell’impossibilità di comunicare di un padre e di un figlio separati dall’ambizione della scoperta.
Ed è su questo piano che si snoda a poco a poco il filo della metafora: siamo di fronte a un padre che ha rotto il legame con la propria umanità e ad un figlio privato troppo presto dell’affetto del padre partito in missione. Il viaggio di Roy non è solo per salvare la Terra ma anche per ricucire questo legame e poter infine fare i conti con sé stesso.
Nei 72 giorni nei quali viaggia verso Nettuno, Roy è solo e la sua mente vacilla: le profondità siderali dello spazio possono portare alla pazzia perché gli esseri umani non riescono a vivere recidendo i legami, le connessioni sociali e affettive che li tengono legati gli uni agli altri.
L’astronauta in questo viaggio iniziatico verso il proprio padre porta con sé un lungo cordone ombelicale che attraversa con lui lo spazio e che decide di non recidere: quello che lo tiene attaccato alla sua umanità e che gli permetterà di sopravvivere, ritornare e ritrovare la pace dopo aver incontrato il padre.
“Ad Astra” è anche un film sul rapporto tra padre e figlio, naturalmente, e sul rapporto tra le generazioni, un altro legame che ci portiamo (o porteremo) dietro anche nello spazio.
In fondo, pare dirci il film, è proprio questo che conta: non tanto l’esplorazione spaziale e l’incontro con altre intelligenze, ma quello che ci rende umani.
Nel dialogo più importante del film, quando Roy sta tornando verso la Terra dopo aver visto morire il padre, spiega come questi abbia scoperto dei pianeti meravigliosi, ma senza anima viva sopra di essi. “La cosa più importante – dice Roy – ce l’aveva davanti”, intendendo con questo l’amore per un figlio, ma anche – una parte per il tutto – per tutta l’umanità. Dimenticato per gettarsi nel vuoto dello spazio.
Il vuoto che Roy attraversa in “Ad Astra” è un vuoto di relazioni e di affetti, è il vuoto fatto di risentimento che gli ha lasciato il padre in eredità.
Il suo contrario sta tutto in quella stretta di mano con la quale Roy viene fatto uscire dalla capsula al suo ritorno sulla Terra, quell’appiglio così semplice eppure fraterno.